La prima esperienza che si fa da migrante è quella di passare la dogana. Questo primo ostacolo concreto per un straniero ha anche un valore simbolico importante: è un esercizio per sorpassare i pregiudizi ed aprirsi ad una nuova realtà che lì è presentata.
Barriere esterne che riflettono una chiusura interiore
Per motivi di studio ho dovuto alcune volte sperimentare la tensione del superare le barriere territoriali.
Credo che ci devono essere molte e varie le ragioni politiche per impedire la libera circolazione delle persone ma, secondo me, esse vengono riassunte in un unico sentimento condiviso in un Paese: la paura.
Aprire le porte agli altri ci costringe a accettare l’arrivo di un essere umano, uguale in dignità, ma che agisce in un modo diverso, ha altri valori e modi di fare le medesime cose. Penso che, da quando l’uomo è uomo, questa chiusura verso lo straniero (che certamente ha una relazione semantica con la parola strano) è sempre esistita.
La mia paura della dogana
Essendo brasiliano, di fenotipo visibile, ho già sentito nella pelle le conseguenze concrete che la paura del “diverso” può promuovere in un popolo. Questo atteggiamento xenofobo, incomprensibile per un cittadino di un paese che onora gli stranieri (soprattutto quelli venuti dall’Europa), ha creato in me una specie di panico nei confronti della dogana.
Pur non avendo mai viaggiato senza rispettare le regole internazionali di soggiorno, tutte le volte che devo consegnare il mio passaporto alle guardie della frontiera, divento nervoso abbastanza da farmi girare la testa per la paura dell’estradizione.
Certamente questo non mi è mai capitato e, spero, non capiterà mai. In maniera generale, anche se non sempre sorridenti, le guardie sono sempre state abbastanza educate. Però è una paura psicologica più difficile da spiegare che da capire, credo io.
I have a dream
Io ho un sogno. Un pianeta dove ci si può circolare dappertutto senza dover avere visti, permessi. Un mondo dove la nostra razza o nazionalità non siano motivi di rifiuto. Sarà l’accoglienza dell’altro il grande valore comune in tutti i Paesi.
D’altra parte, credo che sentirmi respinto o accolto come immigrante dipende anche da un mio esercizio interiore di apertura. Tante volte, forse, è lo straniero che si vittimizza, senza l’esistenza di un vero attacco, però, c’è anche il fatto di che, qui in Europa, storicamente, la paura del diverso è molto più viva che dalle altre parti che ho potuto conoscere.
Un qualcosa su cui lavorarci tutti, ma che innanzitutto, ha bisogno di un’apertura ontologica.
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