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La separazione compiuta nella Società dello Spettacolo di Guy Debord

 L’attualità dell’opera di Guy Debord si esprime in carattere quasi “profetico” in ciò che riguarda gli sviluppi della cosiddetta “realtà virtuale”. Attraverso l’uso della tecnologia oggi è possibile fare esperienze analoghe a quelle reali. I “social – media” permettono una immersione ancora più “cronica” alla vita nell’apparenza, che genera innumerevoli pseudo incontri, che fanno credere l’esistenza di una maggiore socializzazione, ma che non soltanto non si compie, ma allontana sempre più le persone.

L’autore

Nato nel 1931 a Parigi, Guy Ernest Debord è stato uno dei pensatori del movimento conosciuto come Internazionale Situazionista[1].  Scrittore, regista e filosofo, Debord ebbe grande influenza nel pensiero occidentale, sopratutto attraverso il suo saggio più celebre: La Société du spectacle[2] (1967), una denuncia «profetica», al processo di trasformazione sociale operato dal capitale, che ha trasformato i lavoratori  – ma anche la società – in consumatori.

Tra il 1952 e il 1978 Debord dirige tre lungometraggi e tre cortometraggi; viaggia molto e visita spesso l’Italia, in particolare durante gli anni di piombo[3]. Nel 1977 viene espulso accusato di fomentare la violenza. Muore suicida con un colpo di fucile nel 1994.

L’opera

L’introduzione dell’edizione italiana della “Società dello spettacolo”, scritta da Carlo Freccero e Daniela Strumia, considera l’opera dello scrittore francese “l’unico caso di analisi marxista realizzato con la forza del pensiero e non colle armi della rivoluzione”.

Strutturata in nove densi capitoli, l’opera di Guy Debord, inizialmente, non è stata presa sul serio dal mondo accademico. Secondo il critico cinematografico italiano, Enrico Ghezzi, “Società dello spettacolo è stato il testo più saccheggiato, utilizzato e meno citato dall’68 ad oggi”.

Il saggio dello scrittore francese è basato sul pensiero marxista, paragonando il carattere feticcio della merce, con lo spettacolo della società di allora. Nel 1988 Guy Debord aggiunge alla sua opera commentari che confermano la tesi del suo libro.

Debord, nella prefazione all’edizione italiana del 1987, si lusinga di essere uno dei rarissimi esempi contemporanei di qualcuno che ha scritto senza essere immediatamente smentito dagli avvenimenti, neppure una sola volta.

 

Quale Società? Quale Spettacolo?

La società a cui Guy Debord fa riferimento quando scrive la sua opera è quella dell’avvento del Sessantotto[4] dove, a differenza della società tecnologica contemporanea, il consumismo è appena agli esordi ed i media hanno un peso limitato [la televisione ha ancora un’impostazione pedagogica e privilegia la censura rispetto alla molteplicità delle offerte].

Nell’ambito economico questa società è situata tra la seconda e la terza Rivoluzione Industriale[5], in cui, passato il periodo di scarsità, il capitalismo emerge per via della propria capacità di produrre merci in quantità sufficiente da sfamare e coprire la totalità della popolazione.

In questo contesto il valore di ogni cosa è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla e il costo di un lavoratore è determinato dal tempo socialmente necessario al suo mantenimento. Pagando al lavoratore un salario pari a questo corrispettivo l’imprenditore si assicura del lavoro umano, dando ad esso un valore.

Secondo Marx, lo sfruttamento del lavoro umano può essere dimostrato dalla differenza tra le ore di lavoro che il lavoratore è in grado di produrre e il tempo di lavoro socialmente definito necessario per il suo mantenimento.

Sottraendo le necessità primarie del lavoratore, l’imprenditore gli impedisce di accedere ai consumi, generando una sovrapproduzione, che per essere consumata ha necessità che proprio quel lavoratore, prima disprezzato e sfruttato, si trasformi in un bel “desiderato” consumatore.

In questo contesto “nasce” la merce,[6] costituita dal valore di uso e scambio[7], ma che ha in quest’ultimo una crescente rilevanza. Il carattere simbolico prende sopravvento su quello materiale e esige dal consumatore un atteggiamento di contemplazione, passività.

Guy Debord, già negli anni sessanta, è capace d’intuire il fascino perverso della rappresentazione del reale, prevedendo gli sviluppi della società immateriale di oggi. Secondo l’autore, lo spettacolo non è altro che la proiezione della merce, privata dal suo valore intrinseco e ridotta al valore di scambio.

Il principio del feticismo della merce è presentato nella Società dello Spettacolo come “il dominio della so­cietà mediante «delle cose sensibilmente sovrasensibili», che si compie in grado assoluto nello spettacolo, dove il mondo sensibile è stato sostituito da una selezione di immagini che esiste al di sopra di esso, e che nello stesso tempo si è fatta riconoscere come il sensibile per eccellenza” (SS.36).

Allo stesso tempo, però, lo spettacolo non riguarda soltanto i media ma tutta la società capitalista avanzata: è la “principale produzione” e, nel momento in cui esso giustifica ogni cosa, ogni cosa trova in esso la sua giustificazione. “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini”.

 

La separazione compiuta (Capitolo 1)

Quello che viene presentato da Guy Debord nel primo capitolo del suo saggio è il compimento della separazione tra reale e spettacolo nella società, dove “tutto ciò che era direttamente vissuto, si è allontanato in una rappresentazione” in una “immensa accumulazione di spettacoli.

Questo “pseudo-mondo” è oggetto “della sola contemplazione” e si muove autonomamente, ma senza una vita veramente reale. “È una visione del mondo che si è oggettivata” (SS.5).

“Ciò che appare è buono e ciò che è buono appare”. Quest’espressione di Debord, rende visibile il passaggio adoperato, in cui, secondo l’autore, la razionalità non riguarda più le cose, ma l’immagine delle cose, strumento di rappresentazione della realtà, che dopo diventa la realtà medesima.

L’apparente buono

La separazione compiuta tra l’immagine e la realtà, la contemplazione e la “prassi sociale globale”, è “effettivamente” prodotta, ma in modo tale che lo spettacolo riproduca la realtà vissuta “portandogli un’adesione positiva”. “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” (SS.9)

Questo vuol dire che lo spettacolo, secondo Debord, si presenta positivamente  “indiscutibile e inaccessibile”, assumendo il “monopolio dell’apparenza”, che assolutizza ideologicamente un’immagine del reale, ignorando poi la realtà nella sua verità effettiva.

La realtà dell’apparire

La società industriale moderna è per l’autore “fondamentalmente spettacolarista”, dove ogni realizzazione umana, che aveva appena subito la “degradazione dell’essere in avere” ora è passata dall’avere all’apparire. Se non appare, non è. [interessante notare che oggi il carattere veritiero delle cose è tante volte vincolato all’apparire di essa nel telegiornale].

“Lo spettacolo, come tendenza a far vedere per il tramite di diverse mediazioni specializzate il mondo che non è più direttamente coglibile, trova naturalmente nella vista”, combinata con l’ascolto, “il senso umano privilegiato che in altre epoche fu il tatto” (SS.18)

Conseguenze sociale e radice dello spettacolo

Guy Debord considera lo spettacolo “l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale” che non realizza la filosofia, “filosofizza la realtà”, degradando la vita concreta in universo speculativo.

È il potere la principale radice dello spettacolo, secondo lo scrittore francese, che fa uso di esso per parlare alla società in un “discorso ininterrotto”, un “monologo elogiativo”, che nasconde la relazione reale fra gli uomini e le classi. In questo modo lo spettacolo induce ad un comportamento ipnotico, alienato, che è sostanzialmente accettazione di tutto.

Lo spettacolo e la divisione generalizzata della produzione

“La scissione generalizzata dello spettacolo è inseparabile dallo Stato moderno… dalla forma generale della scissione nella società, prodotto della divisione del lavoro sociale e organo del dominio di classe”. (SS.24).

Con questo, Debord responsabilizza la “divisione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto”, che porta il lavoratore – consumatore a perdere “ogni punto di vista unitario dell’attività svolta” e “ogni comunicazione personale diretta tra i produttori”.

Società di isolamento

Lo sviluppo del Sistema nella società spettacolare si poggia verso il “non-lavoro”, l’inattività, per nulla liberata dall’attività produttiva, anzi, dipendente da essa, per proporre la libertà dove ogni attività è una “liberazione del lavoro”, aumento degli svaghi .

“Dall’automobile alla televisione, tutti i beni selezionati dal sistema spettacolare sono anche le sue armi per il consolidamento costante delle condizioni d’isolamento delle «folle solitarie»” (SS.28).

Oggi, ci si può osservare che la spettacolarizzazione del reale non avvicina neppure gli spettatori che si radunano per consumare insieme le immagini, rappresentazioni del vero. Rimane sempre il loro isolamento. Per Debord, lo spettacolo, in quanto settore separato, è il “luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza”. “Lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato” (SS.29).

 

Il ruolo dell’alienazione

È l’alienazione dello spettatore il fondamento della società dello spettacolo che “quanto più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio”(SS.30).

Lo spettacolo nella società corrisponde per Debord a una “fabbricazione concreta dell’alienazione che poi sostiene la espansione economica del sistema. Ciò che cresce con l’economia “non può essere se non l’alienazione che era appunto insita nel suo nucleo originario” (SS.32)

Compimento della separazione

La profondità dell’analisi di Guy Debord rende la separazione tra reale e apparente, come egli stesso definisce, “l’alfa e l’omega dello spettacolo”, facendo in modo che venga conservata “l’incoscienza nel cambiamento pratico delle condizioni di esistenza”.

Il penultimo punto del primo capitolo di Società dello Spettacolo, riassume le conseguenze del compimento della separazione adoperato dallo spettacolo: “quanto più la sua vita è ora il suo prodotto, tanto più (l’uomo) è separato dalla sua vita” (SS.33)

L’ideologia marxista nella Società dello Spettacolo

Come presentato nel percorso metodologico del seminario, il pensiero ideologico cerca di proporre risposte assolute, attraverso un metodo che la giustifichi.

Analizzare la Società dello Spettacolo dalla prospettiva materialista può portare risultati analitici  importanti, come identificare le conseguenze negative portate dal Capitalismo alla società. Nonostante ciò, l’assolutizzare una visione della realtà attraverso il concetto del materialismo storico[8], può rendere ideologica anche la critica di Debord (È importante notare che il comunismo non è riuscito ad mettere in pratica il pensiero socialista presentato da Marx).

Il processo costante di frammentazione della realtà e dello studio, influenzata dalla società tecnologica, rende difficile la visione chiara di un vero progetto sociale che non sia fondato su una rappresentazione. Bisognerebbe pensare la società a partire da un recupero del concetto di reale tipico del periodo pre-rivoluzione industriale, basato, però, sulla molteplicità e complessità intrinseca della società contemporanea.


[1] Movimento rivoluzionario nato nel 1957, con radici nel marxismo, nell’anarchismo e nelle avanguardie artistiche dell’inizio del Novecento, che agiva in campo politico e artistico criticando radicalmente la società capitalistica e dell’industria culturale.

[2] Società dello spettacolo

[3] Periodo, che comprende gli anni settanta e il principio degli anni ’80, in cui si verificò un’estremizzazione della dialettica politica che si tradusse in violenze di piazza, in lotta armata e terrorismo.

[4]  Anno nel quale grandi movimenti di massa socialmente disomogenei (operai, studenti e gruppi minoritari) e formati per aggregazione spesso spontanea, attraversarono quasi tutti i paesi del mondo con la loro carica contestativa e sembrarono far vacillare governi e sistemi politici in nome di una trasformazione radicale della società.

[5] Passaggio dallo sviluppo della industria tessile attraverso l’invenzione della macchina a vapore all’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio nei processi produttivi.

[6] La merce, sostiene Marx, ha un carattere mistico, è una «cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici.» (C, I, 103). Questo carattere mistico non sorge dal suo valore d’uso e nemmeno «dal contenuto delle determinazioni di valore» (ivi). «L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori» (ivi, 104).

[7] Il valore d’uso rappresenta l’utilità di una data cosa, mentre il valore di scambio rappresenta la scambiabilità di una data cosa. Per essere scambiabile una cosa non deve essere per forza utile, ma lo deve essere per essere effettivamente scambiata. In termini economici, si parla in tal caso di costo di produzione (valore d’uso) e prezzo (valore di scambio). Esempio:  beni pubblici (es: servizi sanitari: valore d’uso elevato; valore di scambio nullo) oppure ai beni di lusso (es: gioielli: valore d’uso ridotto; valore di scambio elevato).

[8]  L’analisi marxiana di struttura e sovrastruttura, l’interpretazione materialistica della storia delle società umane (materialistische Geschichtsauffassung). L’uso di questa espressione si deve ad Engels che negli ultimi anni della sua vita scrisse ripetutamente di «concezione materialistica della storia».

 

Diversità e conflitto

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Il filosofo greco Aristotele  considera la famiglia come” comunità naturale fondamentale”. È in essa che si creano i primi legami e modi di rapportarsi, dove nasce una cultura, una tradizione, che dopo viene trasposta alle tribù, villaggi, città, regione, paesi e continenti, rispecchiando in conseguenza la sua molteplicità.

Conoscere profondamente l’altro, la cultura dell’altro, significa conoscere la sua famiglia, le abitudine, i modo di rapportarsi all’interno di essa – che inserita socialmente ha delle tracce comune alle altre famiglie di uno stesso contesto. In questa maniera è possibile costruire dei rapporti nella verità, conoscendo profondamente l’altro (suoi limiti e valori).

La differenza culturale non può rimanere negli ambiti globali (continenti, paesi..) ma deve toccare la comunità fondamentale che poi genera la comunità politica.

Il problema dell’individualismo contemporaneo, come “soggetto” mediatore dei conflitti naturali, dentro una società estremamente molteplice, è la perdita del reale (adesione all’apparenza/virtuale) senso comunitario all’interno della famiglia, il valore del bene comune, che in maniera dialogica rispetta l’individuo e rafforza i legami fra di essi.

Un Dio che è scienza

Non sono mai riuscito a credere  che un giorno avrei conosciuto Dio nella scienza, con lo  studio. Però, mi sentivo [come lo sono sempre culturalmente] spinto a buttarmi e fidarmi da quel misterioso cammino (sfida) che mi si apriva.

Tuffandomi nella realtà razionale tra il continuo scontro tra metafisica e scienza, ho potuto conoscere un personaggio che ha chiuso quella che considero la triade degli illuminati della storia dell’umanità *: Galileo Galilei.

E quello che poi, mi stupiva era che, quanto più guardavo Galileo, la scienza e la concezione di uomo attraverso essa, più paradossalmente contemplavo  Dio e mi meravigliavo: con la sua metodologia ci invita liberamente a riconoscerLo nella natura (esperienze sensibili) e poi testimoniarLo (necessarie dimostrazioni).

Il divino, dopo il mio incontro con Galilei, non è più una realtà metafisica personale, che si esaurisce in ciò che “io credo”, ma «è» nella misura in cui si rinnova in me, nel movimento dialogico di “riconoscimento” e “testimonianza”.

Ho scoperto che la visione galileiana dell’universo che mette in moto il protagonismo esistenziale dell’uomo ed ha illuminato l’umanità post medioevale, ci permette oggi di guardare il mondo ampiamente. Il nostro errore, certamente, è assolutizzare la dimensione scientifica, unidimensionale e dimenticarci la nostra molteplicità non quantificabile.

 

*Aristotele, Paolo di Tarso e Galileo Galilei

Comunità: custode dell’Amore

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Una delle cose che le esperienze e i rapporti mi hanno fatto capire è l’importanza di credere nell’amore. Sentimento/realtà da scoprire, coltivare, finché diventi reciproco (non in quantità, ma disposizione).

È bello amare ed essere amato (in un rapporto di coppia) e quando ci si riesce a raggiunge la dimensione trinitaria in cui ogni “kenosi” trasforma quel mistero in realtà nuova, inedita, l’amore non è solo “cibo quotidiano” di questa relazione, ma riesce anche a raggiungere la comunità.

La mia nuova scoperta è che il ruolo della comunità non è relativo nel processo di “costruzione” di un amore “a due” IN DIO. Perché esso riesca a crescere nella intrinseca dinamica di “morte e risurrezione” è imprescindibile che l’amore sia reciproco anche in ambito esterno, con la comunità.

Non basta il bello sentimento tra due innamorati! Esso non è capace di mantenersi se non oltrepassa il limite della coppia. Senza la comunità, l’amore umano muore.

Però, quello che rende l’amore inesauribile è che anzitutto esso rispetta la libertà e la coscienza di ogni individuo, nel rapporto e della comunità.

Certamente è importante il movimento di apertura della coppia verso la comunità, ma se la comunità non prende sul serio il cammino che l’altro vuole intraprendere, se non lo valorizza e sostiene, questa reciprocità non avviene.

Il futuro della felicità personale e della vita comunità dipende tanto di questo amore reciproco e la responsabilità da entrambi parti porterà alle conseguenze negative o positive di questo futuro all’umanità.

A dinâmica do verdadeiro amor

Depois que a amada se vai, não admite-se tristeza [talvez nostalgia]. O que fica é o impulso de fazer com que àquele Amor, intenso, profundo e humanamente completo, toque os corações das pessoas que encontrar.

Difícil traduzir um sentimento transbordante em uma única frase, mas acredito que a descrição acima explica de modo suficiente um aspecto específico da Felicidade, que pressupõe exclusividade.

O amor entre duas pessoas, por mais que pareça contraditório pensar, não é «finalístico» em si. Na verdade nenhum tipo de amor é estático. O “amar” exige um movimento interior e exterior, que se alimenta reciprocamente, para que depois dure, no contínuo renovar-se. A Felicidade não pode estar sob custodia, mas precisa ser constantemente (re) construída. É caminho e fim [metodológico e ontologicamente].

Pessoalmente, sempre que me vi preso em uma relação fechada em si, encontrei-me limitado, frustrado, aparentemente porque o amor é só em quanto “relação” [amor exige amado e amante].

Claro que, antes de tudo, o amor entre duas pessoas nasce em uma relação interior de reciprocidade, mas adquirida uma “unidade” precisa ser redimensionado na relação exterior, com o mundo, a humanidade. Diria que é um amor de “duas medidas”, porque precisa se realizar nos dois âmbitos e mais que tudo, pra que se realize plenamente, “depende” da disposição do outro.

Já o amor «universalístico», o amor ao próximo, expressa sua exclusividade no amor a CADA próximo. Não é um amor “descaracterizado”, mas que exige um exercício maior de desapego “humano” para construir e reconstruir relações com cada pessoa amada[ universalidade].

Aqui também o amor é dinâmico, necessariamente, para existir, durar. Têm complexidades específicas a respeito da gratuidade e reciprocidade, mas é sobretudo uma Felicidade que se faz independente “de terceiros”.

Entender essas duas dinâmicas foi essencial para que eu pudesse ter consciência de qual amor eu, pessoalmente, desejo (e sou chamado) a “anunciar” [kerigma] para a humanidade.

No processo de amadurecimento do conhecimento da fé percebo que a missão do cristão moderno é justamente mostrar ao mundo a beleza e plenitude do amor Divino, que há em suas entranhas a “dor do abandono”, mas principalmente nos permite conhecer a verdadeira essência da Felicidade = Amor, que foi profundamente banalizado pela experiência cultural “pós descartiana”.

Claro que, como disse no post anterior [em italiano] não basta somente ter consciência. Posteriormente somos TODOS “chamados” a responder, a agir e o encontro com essa Felicidade = Amor, depende efetivamente disso.

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