Month: July 2012

Porque tenho medo de voltar pra São Paulo

É interessante como as reflexões coletivas nascem quase sempre de uma demanda individual.

Explico.

Recentemente pude ler nos sites brasileiros de grande expressão, que a violência na minha cidade natal aumentou no último ano.

Claro que essa notícia não espantaria nenhum paulistano, acostumado a conviver e sobreviver cotidianamente à violência, não só a de criminosos e da polícia, mas todas as diferentes violências metropolitanas, movidas pelo descaso de governos ideológicos que se preocupam mais com a manutenção do próprio poder, que com o bem estar do Povo.

Contudo, a notícia sobre o aumento da violência em São Paulo me assustou pela primeira vez. O motivo: Estou retornando ao Brasil depois de dois anos de vida “burguesa” entre as colinas da maravilhosa Toscana e o ar fresco do “Lac Leman”, na fantástica Genebra.

Não quero fazer o “típico discurso burguês” de gente que vive uma vida cômoda, rica e que, ao lerem sobre as notícias de violência no Brasil, “sobem no pedestal” para declarar seu depreciamento pelo país, o seu sub-desenvolvimento, a falta de respeito do povo… Porém, o que a experiência no Velho Continente me fez perceber foi que quando é possível gozar do bem social, dificilmente se aceita menos.

Quem tem a oportunidade de trabalhar, estudar, viajar, conhecer outras culturas e, consequentemente, enxergar melhor a si mesmo e o próprio país é capaz de expandir conhecimentos e a consciência de que as coisas podem ser melhores.

Mas podem mesmo?

Podem.

Como jornalista e pensador da comunicação social, acreito que a mídia tem um papel importante na reflexão sobre essas possibilidades reais de mudança e melhora… contudo, infelizmente, não é aquilo que se vê nos jornais…

É incrível perceber que, na dezena de matérias que li sobre o crescimento da violência em São Paulo, a causa (ou as causas) desse “fato” não emerge (m). As notícias são só constatações, divulgam só números, mas não expõem o problema na sua complexidade (por isso tanta gente acha que qualquer um pode ser jornalista. Se for só para divulgar, eu também estou de acordo).

Procurando, porém, olhar o todo é visível que os crimes cometidos seguem um paralelo de violência que há anos vem determinando a postura da polícia militar de São Paulo. Contudo, outros índices ajudariam a “ler” melhor o problema… comparando com outras capitais brasileiras, outras taxas que determinam o desenvolvimento de uma região. Mas não, essas notícias exprimem só a constatação de uma violência percentualmente maior.

Notícias assim deveriam não ser dadas, pois não geram mobilização, reflexão social, não movem. Só aumentam o medo, a divisão, intolerância e o preconceito.

As notícias precisam ser apuradas e apresentadas colocando o ser humano (que lê e que è retratado nas matéria) como principal envolvido no problema.

Ser humano que é cotidianamente vítima da violência e do preconceito da polícia. Que è ignorado pelo individualismo ideológico que divide a sociedade em castas.

Ser humano que coloca a sua vida em jogo para tentar solucionar os problemas de violência. Que recebe um salário indigno, uma formação que incita à guerra e que não acredita no respeito.

Ser humano que paga pelo descaso político que não cria estruturas capazes de uma vida pública sadia em que cada um possa ser protagonista do bem estar social.

Nas notícias, vem cada vez menos em evidência o ser humano e por isso elas não têm vidas, são só números, fatos, que não movem leitores, cidadãos, e principalmente políticos.

L’impotenza di Dio alla Luce di Auschwitz: un’interpretazione della tesi di Hans Jonas

Recentemente ho finito di leggere Il concetto di Dio dopo Auschwitz[1] del teologo tedesco di origine ebrea, Hans Jonas.

L’opera breve di lettura “teologico – filosofica” cerca di ripensare Dio dopo la tragedia dell’Olocausto.

Per capire il significato della sua opera e affrontare insieme a Jonas il “nuovo” concetto di Dio emerso dopo Auschwitz è necessario, anzitutto, fare una doppia differenziazione che delinea la frontiera fra ebraismo e cristianesimo.

Prima di tutto il modo come Dio si manifesta nella storia. Mentre per i cristiani il luogo di incontro definitivo con Dio si darà nella vita eterna, per gli ebrei Dio è, innanzitutto, Signore della storia, che agisce direttamente in essa, intervenendo (e sopratutto punendo) se e quando necessario.

Dopo è importante non confondere l’ontologia di Dio, cioè, la sua essenza, che è intrinsecamente onnipotente, con il suo agire storico. Ontologicamente Dio sarà sempre onnipotente, ma con la creazione Lui concede, seguendo il pensiero di Jonas, una parte della sua potenza al Creato, manifestandosi poi con e attraverso esso.

Fatte le premesse ci si può entrare nella tesi del libro dove il dramma dell’Olocausto mette in discussione la visione ortodossa ebrea del Dio onnipotente “profondamente buono e conoscibile (comprensibile)” e un Dio che “ha rinunciato la sua potenza” “concedendo all’uomo la libertà”.

Interessantissimo il ragionamento logico di Jonas che genera il dilemma sull’onnipotenza di Dio e il libero arbitrio del Creato. Un Dio onnipotente nel suo agire nella storia – che interviene per esercitare la Sua volontà sul mondo –  non permetterebbe che l’uomo fosse veramente libero di scegliere fra bene e male, essere vero co-creatore della storia[2].

Alla luce dell’evento di Auschwitz il concetto di Dio basato sulla Sua onnipotenza cambia. L’onnipotenza nell’agire storico di Dio viene condivisa con il Creato che passa ad essere capace di determinare gli avvenimenti, condizionandoli alla sua scelta.

Perciò Auschwitz non può essere vista come punizione del Dio onnipotente agli uomini, ma il risultato della scelta drammatica del Creato per il male, perché se Dio è veramente buono, non permetterebbe la più grande disumanizzazione della storia[3].

Per Jonas, il silenzio davanti all’Olocausto è manifestazione della “impotenza” di Dio, che rendendo l’uomo veramente libero, “non può” intervenire direttamente quando l’uomo cade nell’errore[4].

Quello che Jonas opera, da teologo-filosofo ebreo, secondo me, è un vero incontro concettuale del Dio cristiano e quello ebreo. Come nel cristianesimo Dio è umanizzato, nella misura in cui è “sofferente, divenente e che prende cura” del Creato[5].

Per i cristiani Dio si incarna nel Cristo e attraverso Lui, nel Suo abbandono e risurrezione, tutta la storia viene resinificata, nel passato, presente e futuro. In questo modo anche il dramma della guerra e ogni scelta del male sono trasformati, per mezzo della manifestazione di Dio (non sempre visibile in maniera diretta), in un bene maggiore generando anche la coscienza della potenza degli uomini, tanto per il bene e per il male.

Un Dio che decide donare la sua onnipotenza storica non lascia però di agire nel mondo, ma attua in nuovi modi. È il Dio della comunione, condivisione, co-creazione, cioè, di un operare INSIEME a noi, lasciandoci però liberi per esercitare la nostra volontà.

Si potrebbe poi comprendere, a partire della lettura de Jonas, che davanti al male, come nel caso dell’Olocausto, noi dobbiamo chiederci non “dove è Dio” ma “cosa abbiamo (ognuno) fatto affinché il male sia emerso”.

Con la creazione, l’azione storica di Dio si dà in maniera molto più silenziosa, permettendo addirittura che gli uomini ignorino la Sua presenza, per non condizionarli, rendendoli veramente liberi.


[1] H.Jonas. Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo, Genova, 2004.

[2] pp.31-32.

[3] pp.34.

[4] pp.35.

[5] pp.27-30

Valor das conquistas

Enquanto eu me aqueço no sol ginevrês

Mergulhado nas aguás gélidas do seu lago

Procuro lembrar, tomando muito cuidado

Das terras de onde vim, do sol que me fez.

Lembro da malandragem e do gingado brasileiro

Filho da luta, de quem nunca foi primeiro

Meu pai é paulista, meu avô pernambucano

Em vez disso sou urbano ou melhor, sou paulistano

Hoje posso contemplar os Alpes com neve

E tem ignorante que julga dizendo o que não deve

Ninguém sabe o duro que dei

Pra chegar aqui, trabalhei, estudei.

Conquistas sofridas, inúmeros sacrifícios

Incontáveis as dores que se escondem por trás disso

Ninguém sabe o duro que dei

Pra chegar aqui, trabalhei, estudei.

Presentazione della tesi all’Istituto Universitario Sophia – 2 luglio 2012

Come premessa fondamentale io vorrei, innanzitutto, ringraziare quelli che mi hanno sostenuto e incoraggiato a seguire e superare questa importante tappa del mio percorso di studio.

Prima di tutto a Dio, chi mi ha dato sanità fisica e psichica [avrei dei dubbi] per avventurarmi per due anni in questo luogo sperduto della bella Toscana. La Sua luce ha sempre illuminato ogni passo e difficoltà che, in tanti momenti, mi pareva insuperabile.

Dopo ringrazio la mia famiglia, che oggi è rappresentata dai miei genitori. Loro due hanno attraversato l’Atlantico per festeggiare questo momento importante della mia vita. A loro io devo tutto. Insieme mi hanno sempre sostenuto con la loro fiducia, formazione umana e l’amore che i due testimoniano con la loro vita.

Ringraziamenti speciali anche a Flavia. Mia compagna di viaggio, amica dedicata, fidanzata amorosa e comprensiva, che con il suo sorriso incoraggiante mi ha continuamente spinto a non mollare, pure se spesso non riuscivo a trovare forze o motivazioni interiori.

Non potrei dimenticare il grande “grazie” ai fratelli di Tracolle, che si estende alle studentesse di Sophia, a tutti gli studenti delle prime generazioni, della mia e quella posteriore. Amicizie vere e profonde che porterò come segno vero di che quest’Istituto genera, in modo speciale, vita.

Una menzione particolare ai professori che, generosamente, hanno condiviso con entusiasmo parte della loro conoscenza. Mi permetto citare Piero Coda, Antonio Baggio e Vicenzo Buonuomo, che insieme a José Salvador Faro, della PUC-SP, sono rimasti come grandi esempi che hanno trasformato anni di impegno intellettuale in dono alla mia generazione.

Finalmente ringrazio tutti quelli dello staff, le famiglie di Loppiano, i giovani del Movimento del Focolari,la rete internazionale di comunicatori, NetOne, e tutti quelli che mi hanno accompagnato “da vicino” negli ultimi due anni.

Nel 2009, esponendo le idee del mio lavoro di laurea triennale a Urbano Nobre Nojosa, amico e direttore del dipartimento di giornalismo della Pontificia Università Cattolica di San Paolo [università che nel 1998 ha conferito a Chiara Lubich, fondatrice di questo Istituto, il premio honoris causa di Scienze umane e della religione] io sono stato

chiamato esistenzialista, perché, secondo lui, ero eccessivamente orientato dalle mie profonde credenze nell’essere umano.

Sicuramente, sono state queste credenze nell’uomo e nella sua centralità due dei principali motivi che mi hanno spinto a svolgere gli studi in comunicazione.

In un ambiente sociale drammatico come quello del mio paese, della classe sociale in cui sono inserito, dove i ragazzi devono crescere in fretta per avere le condizioni per pagare gli studi, formarsi a un mestiere, è difficile aver tempo per l’ozio, per riflettere sul senso di quello che si sta facendo. Bisogna fare, lavorare, sopravvivere.

Ingenuamente, io credevo che attraverso il giornalismo avrei potuto collegare le realtà distanziate paradossalmente dalla globalizzazione. Producendo informazioni mi vedevo partecipe della ricostruzione della struttura sociale, stimolando l’interesse reciproco fra le persone.

La scelta decisiva di studiare giornalismo, ha però un legame profondo con il dolore. Era il 2005 e, testimone oculare di un’Indonesia che cercava di ritrovare le proprie forze, dopo essere colpita da un tragico Tsunami, mi sono accorto della distanza fra quello che leggiamo quotidianamente nei giornali e ciò che succede realmente.

Quei milioni di vittime morte annegate dalle onde giganti, il profumo di cadavere ancora 6 mesi dopo la tragedia, mi sembravano una triste espressione di innumerevoli vite ignorate, trasformate in numeri, statistiche, fenomeno mediatico di passaggio. Quel grido doloroso di chi piangeva dopo aver perso tutto, non aveva capacità di trasformarci, colpirci interiormente, perché non VERAMENTE comunicato.

Volevo capire il perché di quel fenomeno e quando sono tornato a casa, in Brasile, sono entrato nell’università di giornalismo.

Durante quattro anni, rare le opportunità di comprendere l’uomo che si comunica. Poco rilevato il significato storico e filosofico dello sviluppo della comunicazione e dove l’essere umano è stato collocato in essi.

Alla fine del corso ho deciso di far vedere cosa l’università di giornalismo ha fatto con me, futuro giornalista. “Jornaleiros”, un documentario di 50 minuti, racconta il dramma di una formazione centrata su aspetti funzionali o riflessioni ideologiche che poco hanno formulato una coscienza etica e socialmente responsabile.

Anche se è stata importantissima la laurea di giornalismo, sentivo che ancora mi mancavano i fondamenti ed era chiaro che dovevo venire a Sophia.

In questo Istituto, oltre ad aver avuto una vita in certi versi “lussuosa” da “solo” studente, ho scoperto cosa significa impegnarsi nello studio, con quale dedizione ci si costruisce il cammino intellettuale e soprattutto che, senza riflettere, la vita può diventare soltanto una sequenza cronologica di fatti in cui ci si può dimenticare il senso dell’umanizzazione del mondo che avviene a partire dai nostri singoli atti.

Sophia mi ha dato tanti fondamenti per riflettere su una scienza che si rivolge all’uomo, mi ha fatto conoscere un Dio che si manifesta nella cultura, un’economia che si sostiene sulla comunione e una politica che crea legami fraterni.

Durante lo svolgimento della tesi, impossibile non vedere che tanti degli interrogativi riguardo la comunicazione, pian piano, tornavano. Però, a Sophia il mio approccio era ormai cambiato e le risposte si svolgevano attraverso una nuova metodologia, transdisciplinare.

Inserito in una dinamica di “vita e studio” ho cercato duranti i due anni di sviluppare le domande emerse alla fine della mia prima laurea.

Sono uscito dall’università in Brasile senza tante risposte esplicite, soprattutto a rispetto del compito ultimo del giornalismo nella società. Ed è stata questa la sfida che mi sono proposto nel lavoro che conclude il fruttuoso percorso trascorso a Sophia.

La domanda principale della tesi si rivolge alla possibilità di ricuperare la centralità dell’uomo in una comunicazione che si inserisce all’interno di una Società di massa che ha continuamente ignorato l’uomo nella sua triplice dimensione, che è la seguente:

scegliendo come titolo la comunicazione e la centralità dell’uomo, io cerco di confrontare due aspetti che confluiscano in una stessa realtà. Dallo stesso modo in cui l’uomo esiste in quanto capace di comunicarsi, la comunicazione solo si manifesta se espressione dell’essere umano che si relaziona con se stesso, con l’altro e con il mistero.

Il primo capitolo richiama l’etimologia del termine e fa vedere le conseguenze di una comunicazione che è inserita nella Società di massa. Le scuole presentate, quando rilette cercando di far emergere l’uomo, sembrano insufficienti per rispondere al compito ultimo del comunicatore. Bisogna, come afferma il teorico francese Dominque Wolton, ricuperare la dimensione normativa della comunicazione.

Dimensione normativa che non si esprime a partire da un insieme di regole che dettano cos’è e cosa non è comunicazione, ma che ricupera il senso etimologico che vede

la “actio” di condividere qualcosa, di mettere in comune, come fondamento della emissione e diffusione di ogni tipo di informazione.

L’antropologia filosofica emerge come scienza capace di presentare uno dei modelli di uomo con cui la comunicazione di massa deve interagire. L’uomo che è ragione, relazione e silenzio. Uomo che vive con gli altri nel mondo.

Senza una comprensione profonda dell’essere umano sembra non bastare la tecnica, senza l’uomo non esiste comunicazione.

Questa tesi è riuscita ad aprire la discussione sull’uomo come soggetto della comunicazione di massa. Ha potuto presentare alcune delle basi di questo importante approccio transdisciplinare fra la scienza della comunicazione e l’antropologia filosofica, fattore che riporta alla continuità di uno studio convergente fra le due scienze.

Però, la mancanza di uno studio antropologico approfondito ha limitato alcune delle relazioni che potrebbero essere osservate nel confronto con la scienza della comunicazione.

L’ultimo capitolo della tesi richiama l’importanza di una proposta teoretica che sia anche proponibile nella pratica. La disciplina scelta per l’analisi è quella con cui io ho trascorso gli ultimi anni, profondamente immerso, e che credo capace di proporre nuove forme di relazioni potenzialmente positive: il giornalismo.

A partire del suo percorso storico è possibile percepire nel giornalismo un concorrere all’inclusione sociale, la partecipazione collettiva della vita in società, della democrazia. Non per caso Chiara Lubich affermava che senza comunicazione aperta a tutti non si può raggiungere il mondo unito.

Però, gli sviluppi verso la responsabilità ed etica della produzione giornalistica hanno bisogno di un supporto comunitario, sociale, che renda possibile non soltanto l’emissione e diffusione delle informazioni che rispecchiano l’essere umano, ma che soprattutto sia strumento di coesione, condivisione fra persone, collegate nel mondo globalizzato.

Questa tesi solo presenta alcune delle questioni chiavi del problema che deve essere ulteriormente approfondito, affinché sia possibile trovare misure che rispettano l’indipendenza e la libertà del giornalismo nella sua interdipendenza con la società e il compromesso etico.

Lo scenario che si prospetta accenna a dei cambiamenti. Innumerevoli progetti di educazioni cercano di insegnare ai bambini del secolo XXI ad avere un rapporto positivo

con i mass media. Inoltre cresce la riflessione sul significato etico e responsabile del giornalismo, come è evidente nei progetti e negli incontri sul tema.

Alternative per la regolamentazione del mestiere accompagnano la crescente domanda di sforzi per fare costruire un nuovo giornalismo sulle base dei presupposti antropologici.

Finisco questa presentazione riprendendo l’ultima frase del documentario prodotto nella laurea triennale in cui il professore Silvio Mieli dice: “la morte di un tipo di giornalista e di giornalismo, non significa la morte del giornalista e del giornalismo nel suo complesso, significa una dimensione, una forma che si sta modificando”.

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