Oggi ho capito che nel Paradiso non può esserci il male.
La metafora del serpente presente nel racconto mitico della Genesi cristiana non può significare un essere (presenza) ontologicamente cattivo, perché vivente all’interno del “Paradiso dell’Eden”. Ammettere questo sarebbe dire che anche il male arriverebbe al Regno di Dio (nel suo disegno, precedente al peccato).
No! Secondo me il serpente è una dimensione interiore dell’uomo, ogni uomo. Creato e passibile di rinnegare il progetto divino perché è possessore del libero arbitrio.
Essendo libero, l’uomo può capire come vuole la sua “figliolanza divina” ontologica.
Da un lato può voler affermare la propria identità di figlio da solo, cioè, rinnegando il prossimo (le altre creature) e addirittura Dio stesso (patricidio), allontanandosi però di se stesso.
Dall’altro, capendo che la sovranità di Dio è manifestata nel dono totale di sé, posteriore a un necessario affidamento completo adoperato prima, capisce che la nostra identità di figli si dà «nella relazione». Affidamento e dono di sé a/da/in un Altro. “Trinitariamente” guidati (illuminati) dallo Spirito Santo (coscienza profonda interiore).
Da questi complicati e “inesprimibili” passaggi ho capito che il male non c’è come forza motrice nel Paradiso, ma come adesione al desiderio di figliolanza senza la relazione, che scontra profondamente con il disegno divino. È volontà di potenza, di affermazione della propria identità, senza il riconoscimento di una coesistenza necessariamente condivisa.
La voglia di comprensione della propria identità non può annullare l’altro, perché esso è il vero custode della nostra identità. Riconoscere la nostra figliolanza divina è possibile attraverso il principio di fraternità (che ci fa vedere uguali in dignità e perciò co-responsabili della felicità dell’altro – Principi d’interdipendenza e comune destino di Habermas) oppure il principio di paternità condivisa (perché, se siamo fratelli in dignità, abbiamo lo stesso padre). In entrambi la relazione è fondamento identitario.